Critica
(Germano Beringheli)
Nonostante siano trascorsi dieci anni dalla sua scomparsa e sei dall’importante mostra antologica che gli fu dedicata dal maggior museo ligure di arte contemporanea, accade ancora che
si rivada volentieri, con qualcuno che per necessità di pensiero o di sensibilità affine mostri interesse
per il suo lavoro, alle utilissime aperture che Enzo Carioti liberò nel moderno assumendo
protagoniste – siccome certe esperienze concettuali adottate quali fonti di ispirazione dalla sequela
della ricreazione poverista – le forme frammentate dell’esperienza visiva del tempo della
società dello spettacolo.
Il ricorso a Debord e ai suoi aforismi suscitati, con decisiva singolarità, dal percorso situazionista
e dalla constatazione del degrado dell’essere in avere, credo che sia più che opportuno per
riassumere le razionali giustificazioni di un artista capace di comprendere l’opportunità di mutare,
nel proprio lavoro, la preesistente concezione di struttura pittorica e la conseguente trasformazione
della nozione di rappresentazione.
Più volte sono intervenuto per commentare i suoi approcci alla raffigurazione, cercando di
spiegarmeli e di comunicarli a quanti palesavano, per essi, un qualche interesse, ben consapevole,
per aver letto Bachelard e fatto tesoro della sua “poetica della rêverie”, che la creazione dell’artista
è mossa dalle suggestioni immaginarie e dalla volontà di dare loro una forma suggerita
dalla necessità interiore.
Nel 1976 segnalavo l’osmosi continua tra i materiali e l’azione visiva realizzata suggerendo
l’attenzione critica per i modi con cui, rivisitando approdi di altri, Carioti si comportava come se,
primo uomo, dovesse esprimersi artisticamente ex-novo.
Altri, poi, avrebbe citato i concettuali Tuttle e Paolini dimenticando i complessi ordigni meccanici
che avevano indicato, nel XVIII secolo, quelle composizioni di carattere scenografico e decorativo
che appartenevano alla pittura e che il Milizia avrebbe detto “ripiene di figure e di grandi
movimenti”.
Di fatto le “macchine” teatrali con cui Carioti metteva in scena (e in moto) le forme della pittura
– così come aveva realizzato “figure” con cartoni, garze e leggerissimi legni (nel ’76 lo avevo
segnalato per il disegno, al Bolaffi ma i redattori dell’allora importante catalogo, di fronte a delle veline e non a un segno di matita, non compresero la finezza) – debbono, forse, la loro straordinaria
ragione di essere moderne a una rilettura del tutto ideologica del passato da parte di uno
che, pittore, filosofo, teatrante e musicista, si era interrogato sulla figuralità del pensiero.
Alcuni hanno voluto vedere le radici culturali di Carioti nell’esaltazione del complesso compositivo
e nelle venature vitalistiche del futurismo abbraccianti i diversi campi dell’esperienza umana:
letteratura, arti figurative, musica.
Tuttavia il suo teatro-del tutto relativo, anche, a certe proposizioni Dada e pur riconoscendovi,
nel segno della organicità dimensionale dello stile, evidenti congiunzioni spazio – temporali – appartiene
alla concettualità metafisica della rappresentazione prospettica là dove i teorici della pura
visibilità distinsero, agli inizi del Novecento e con le asserzioni di August Schmarsow, le differenze
tra spazio interno e spazio esterno.
Marcuse, rileggendo gli utopisti alla luce della società opulenta, aveva indicato come e quanto
il fenomeno degli hippies e dei beatniks annunciasse, nei secondi anni ’60, una sorta di disgregazione
all’interno del sistema.
Carioti, facendo pittura e tenendo ben conto del “sentimento dello spazio”, potenziando le forme
nei loro effetti tridimensionali, aveva lasciato affiorare gli intenti psicofisici della rappresentazione
emergenti in una società che andava vieppiù confondendo, attraverso modelli ed effetti teatrali,
l’apparenza con la realtà.
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Sapeva, da Klee, che compito dell’artista era quello di rendere visibile, mediante gli elementi
strutturanti la figurazione che mostra, l’invisibile.
“Trepidi cenni, disegni/di carta” li disse un poeta, Maurizio Cucchi.
Manifestazione pura di un esasperato pathos nuovo capace di coinvolgere sguardo e spettatore,
dico io, ripensando l’innervata mossa innovativa del pittore, il suo costituire, nel quadro, una
scena che fosse adeguato sfondo alle azioni degli attori.
O, riandando all’ordinario trasformato in straordinario dai gesti e dalle attitudini dell’artefice
che ha pensieri e conseguenti azioni di forte connotazione formale.
Per dare un senso, e ricito Klee, all’estetica di un mondo che sembra avere perduto, con l’inquietudine
angosciosa degli accadimenti, i margini dell’originario, il senso della creazione come
atto compiuto.